venerdì 13 settembre 2019

Giuseppe Vanni - Paris Necker

Il Paris Necker è un grande ospedale pediatrico di Parigi nel quale l'autore, qui alla sua terza raccolta di poesie, ha trascorso suo malgrado un periodo di grande sofferenza personale per stare vicino al figlio, affetto da una rara malattia genetica. Da quest'esperienza dolorosa Giuseppe Vanni ha tratto l'esigenza di scavare dentro se stesso per tentare di aprire la propria vicenda personale a un significato di respiro universale.

Il tono intimo e a tratti straziante di queste poesie rendono molto difficile rendere conto della loro dimensione poetica e letteraria. A volte il lettore prova quasi imbarazzo nell'essere messo brutalmente di fronte a situazioni tanto private. In un certo senso, lo scandalo di questo libro è il suo interrogarsi sul dolore, il cercare di affrontarne la mancanza di senso all'interno di un meccanismo generale che ne prevede l'ineluttabilità quando invece, a livello mondano, bisogna fare i conti con la  diffusa riluttanza ad ammetterne la presenza. In fondo, in questo rimestare continuo sul senso della sofferenza umana c'è anche una messa in discussione della nostra condizione esistenziale, incanalata a forza sul binario di una sorta di mitologica e, a volte, poco motivata felicità. 

Da questa raccolta di poesie sembra nascere una domanda: possiamo sottrarci al destino che ci vede non solo bersagli ma anche artefici, non solo vittime ma anche carnefici? Oppure siamo intrappolati in un'eterna ruota circolare che non offre vie di scampo?

L'autore ha saputo tramutare un'esperienza tormentata in un messaggio di speranza rivolto verso il mondo. E' riuscito a costruire sopra l'assurdità e la disumanità della condizione del figlio una riflessione in grado di aprire uno squarcio di umanità. Dalle tenebre alla luce, passando per una rielaborazione intellettuale e letteraria del proprio vissuto personale e di quello di altre persone segnate da un destino analogo con le quali Giuseppe Vanni ha fatto conoscenza durante il suo soggiorno nell'ospedale pediatrico.



I testi di "Paris Necker" si snodano lungo una via crucis le cui tappe rappresentano altrettante domande sul significato del dolore e del suo rapporto con il mondo, naturale e sociale. Ogni poesia parte dall'esplorazione della situazione personale e del rapporto dell'autore con il figlio per poi aprirsi a una dimensione universale, come se la sofferenza rappresentasse la chiave di accesso a una conoscenza più profonda del mondo reale.
Si alternano riflessioni sulla natura biologica del destino umano (...se altro non siamo che una sequenza da recitare a memoria., IL CERCOPITECO); tentativi di cercare sollievo nell'enumerazione classificatoria  dei documenti medici (mi rianimo ordino il nostro bagaglio: referti, esami, pareri, dimissioni, TAC-IRM; ne controllo l'esatta disposizione cronologica, il preciso rintocco sincronizzato sulla malattia che ti dà il nome., LA VISITA), sincere ammissioni della propria impotenza personale (...e spero che se vivi avrai pietà di questo padre e del suo coraggio al macero e del gorgo in cui debole affoga nella sera senza di te., RIANIMAZIONE) e accorate constatazioni della vita che sfugge (Da tempo sono appassiti i nostri petali e mai ne abbiamo annusato l'odore., PETITES FLEURS),

Emerge da questa raccolta di poesie la disperazione per un destino del quale non si riesce a intravedere lo scopo, la cui assurdità è esasperata dall'insensibilità e dalla crudeltà di coloro che ci stanno attorno, ormai assuefatti non solo al dolore, ma anche alla propria incapacità di metterne in discussione  la necessità. Nelle descrizioni del ricovero traspare la volontà del padre di essere vicino al figlio, ma anche la paura di non saperlo fare e il senso di colpa che ne deriva. I particolari delle terapie mediche vengono utilizzati come metafore per esplorare la condizione umana, propria e universale (Quanto resta ancora da disinfettare dei giorni a brandelli ricuciti nella sutura parietale?, LA MEDICAZIONE), attanagliati dal dubbio che esista ancora un futuro e che invece tutto finirà per appiattirsi in un eterno presente, fatto di grigiore e di disperazione.

Indubbiamente l'esplorazione di una condizione estrema come quella legata alla malattia del figlio ha consentito all'autore di interrogarsi sul proprio destino da una prospettiva diversa, nella speranza di lenire il dolore incasellandolo in una valutazione freddamente contabile (e del dolore ti chiedo rendiconto delle lacrime ti chiedo riscontro della pietà ti chiedo contabilità, RECHERCHE ), abituati come siamo a una dimensione nella quale persino il sentimento della pietà viene soppesato con il bilancino di una ragione che non ha nulla a che fare con l'umanità.

Le peregrinazioni in una Parigi stanca e spettrale, in preda a un sentimento di profonda solitudine, accresciuto dai dettagli che si offrono allo sguardo dei turisti (bistrot, monumenti etc...) non fanno altro che accrescere il senso di desolazione (E più ancora mi morde il cuore questa grigia stagione nelle sere che consumo tra i vetri appannati dei bistrot e gli sbuffi di fiato sul boulevard deserto in cui come un naufrago cammino..., TUNNEL). Lo sfinimento conduce alla ricerca di verità metafisiche e all'ansia di espiazione  (Se la distorsione occorra indagare, o invece l'oscura trama razionale, l'ignoto peccato che si incarna nel pianto innocente del fragile neonato. A chi la colpa?, ESPIAZIONE), nella speranza esile, ma pur sempre viva, di trovare una via di risalita dal baratro dell'angoscia e dell'umana disperazione.

martedì 12 febbraio 2019

Considerazioni sul Giorno del Ricordo

La giornata dedicata al ricordo delle Foibe ispira una serie di riflessioni, a partire dalla scelta della data, il 10 febbraio, che abbastanza curiosamente coincide con il giorno della firma del Trattato di Pace tra lo Stato italiano e le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (10 febbraio 1947). Dico curiosamente perchè gli eccidi delle foibe si sono consumati nell'ottobre del 1943 e nel maggio del 1945, per cui ci si aspetterebbe che vengano commemorati in autunno oppure a maggio. Invece la data scelta sembra avere connotazioni vistosamente polemiche verso il Trattato di Pace, forse perché esso sanciva la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione, la A e la B, delle quali solo la prima, che racchiudeva l'entroterra triestino, fu restituita all'Italia mentre la seconda, che di fatto includeva tutta la regione istriana, rimase definitivamente alla Jugoslavia. D'altra parte il regime fascista aveva concorso  a scatenare il conflitto bellico più distruttivo della storia umana ed era prevedibile che le potenze vincitrici avrebbero fatto pagare agli italiani il prezzo della sconfitta. Va anche detto che l'Italia, almeno parzialmente, venne ricompensata con l'annessione della Val Pusteria, che fu invece tolta all'Austria nonostante, all'epoca, fosse interamente abitata da austriaci. 

Dopo la fine del conflitto bellico alla popolazione italiana residente in Istria fu concessa, almeno in teoria, la possibilità di scegliere se restare o andarsene, ma in realtà la scelta fu quasi obbligata perché era chiaro che i vertici jugoslavi intendevano restituire agli italiani il trattamento che il regime fascista aveva riservato a sloveni e croati durante il ventennio precedente. I pochi coraggiosi che decisero di restare dovettero rassegnarsi a ricoprire un ruolo marginale all'interno di una società nella quale il sentimento popolare anti-italiano, oltre a nutrirsi del ricordo dei crimini commessi dal regime fascista durante la guerra,  veniva alimentato ad arte dai dirigenti locali e nazionali del regime comunista.



Sergio Segio
Sergio Segio, l'ex comandante Sirio della formazione terroristica Prima Linea, era originario per l'appunto di Pola, anche se è difficile sapere se la sua famiglia fu tra quelle che decisero di restare oppure tra quelle che giunsero dall'Italia. Infatti non ci fu solo chi scelse per costrizione, ma anche chi decise deliberatamente di andare a vivere in Jugoslavia per contribuire all'edificazione del socialismo in versione adriatica. E' il caso dei 2.000 operai dei cantieri di Monfalcone che nel 1947 scelsero di varcare il confine per lavorare e vivere a Fiume. La Jugoslavia aveva disperato bisogno di manodopera qualificata per costruire le infrastrutture che la mettessero in grado di diventare l'anello di collegamento tra Medio Oriente ed Europa centro-orientale: oleodotti, metanodotti, depositi di stoccaggio delle merci, cantieri navali, ferrovie, strade e autostrade. Alcuni operai di Monfalcone, attratti dal miraggio del Paradiso in terra e incoraggiati dalla propaganda del Partito Comunista Italiano, pensarono che quella fosse la grande occasione per tentare di costruire un mondo nuovo e un'umanità diversa. Difficile dire in quanti si siano pentiti della scelta fatta e quanti invece ne siano rimasti soddisfatti.


Il porto di Trieste
Dal punto di vista strategico il controllo del porto di Trieste era indispensabile per il regime di Tito. L'obiettivo era duplice: controllarne i traffici e, possibilmente, frenarne lo sviluppo per favorire la crescita del porto di Fiume, fino a renderlo il primo porto dell'Adriatico. Nel 1945 il tentativo  di realizzazione del progetto avvenne per via militare, e gli orrori delle Foibe ne sono la testimonianza più evidente; nella seconda metà degli anni Settanta invece l'operazione fu tentata sfruttando alcune delle clausole presenti negli accordi di Osimo del 1975. In entrambi i casi il tentativo fallì, per la semplice ragione che il porto di Trieste aveva, e continua ad avere, un'importanza troppo grande per l'economia del mondo tedesco meridionale perché le grandi potenze potessero permettere a un regime comunista, in una forma o in un'altra, di controllarne le attività.


Ulteriore motivo di riflessione è rappresentato dall'affermazione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale commentando l'eccidio delle Foibe ha affermato che "non si trattò, come qualche storico negazionista o riduzionista ha provato a insinuare, di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni". In effetti tra le vittime degli infoibamenti figurarono anche antifascisti, esponenti locali del CLN e persino i finanzieri del porto di Trieste, i quali non avevano commesso alcun crimine ma agli occhi dei soldati jugoslavi erano comunque colpevoli di vestire una divisa dello Stato italiano. Va detto, però, che i dirigenti comunisti ebbero gioco facile nell'attizzare l'odio anti-italiano, visto che il regime fascista aveva coltivato una discriminazione nei confronti della popolazione slava che da principio aveva solo caratteristiche culturali, ma che lentamente era scivolata, complice anche l'alleanza con la Germania Nazista, nelle voragini dell'intolleranza razziale. Fin troppo facile da parte di Tito e degli altri dirigenti comunisti propagandare l'equazione italiano=fascista e cavalcare i sentimenti di odio verso gli italiani per perseguire obiettivi di natura strategica.


La firma del trattato di Osimo
L'invasione della Jugoslavia da parte delle potenze dell'Asse, nel 1941, aveva provocato la nascita di un forte movimento resistenziale per stroncare il quale era stato impiegato ogni mezzo: fucilazioni, rastrellamenti, rappresaglie, incendi di villaggi, deportazioni della popolazione civile in campi di concentramento, alcuni dei quali gestiti interamente dalle forze armate italiane. E' evidente che, quando la IV Armata jugoslava si affacciò alle porte di Trieste, nel maggio 1945, gli animi fossero tutt'altro che sereni. Tanto più che era già emerso chiaramente l'orientamento, da parte delle potenze vincitrici, di non voler perseguire i criminali di guerra tedeschi e italiani a causa del nascente clima di contrapposizione con l'ormai ex alleato sovietico.

Tutte queste cose sono state dette e scritte più volte da molti storici, sia italiani che sloveni, e non si comprende come mai Sergio Mattarella, con il suo intervento, abbia voluto escludere dal novero delle interpretazioni ammissibili proprio quella che, a giudicare dallo svolgimento degli avvenimenti, appare la più probabile, e la più semplice, per spiegare i massacri delle Foibe. Il Presidente della Repubblica ha voluto utilizzare un'argomentazione che ricorda, nello stile e nel contenuto, i canoni tipici della retorica populista:  indicare in maniera generica un nemico per mobilitare il sentimento popolare verso di esso evitando però di scendere troppo nei dettagli. Molto furbo e molto efficace. Se la frase fosse uscita dalla bocca di Salvini nessuno ci avrebbe fatto caso, ma sentirla pronunciare dalla figura che ricopre il ruolo di garanzia delle istituzioni democratiche fa un certo, sinistro, effetto.

domenica 27 gennaio 2019

Il Giorno della Memoria: il lager di Ravensbrück

Veduta del lager di Ravensbrück nel 1939
Il campo di concentramento di Ravensbrück è stato il più grande lager per donne durante il Nazismo. Venne creato dalle SS nel 1938/39 nei pressi della città di Fürstenberg/Havel, nel nord della Germania, a circa 100 chilometri da Berlino. Assieme al vicino campo di Uckermark e agli impianti industriali del gruppo Siemens formava un complesso nel quale vennero internate 132.000 donne e bambini, 20.000 uomini e 1.000 giovani donne le quali, essendo poco più che adolescenti, non potevano avere commesso alcun reato vero o presunto, ma erano semplicemente ritenute "asociali", cioè adottavano comportamenti non in linea con l'ideologia nazionalsocialista. 

Si stima che circa 28.000 prigionieri, in buona parte donne, morirono a Ravensbruck, alla cui sorveglianza erano preposte 1.000 SS e 550 guardiani donne. Il campo venne liberato dall'Armata Rossa nell'aprile 1945. Nel dopoguerra gli edifici del lager servirono come caserma al Gruppo di Forze Sovietiche in Germania, denominazione assegnata ai reparti dell'Esercito sovietico schierati nella Germania Orientale.

Il 18 maggio 1939 arrivarono le prime 800 detenute dal campo di Lichtenburg. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale iniziarono ad affluire donne soprattutto dalla Polonia, catturate dalle truppe tedesche in seguito all'occupazione del paese perché appartenenti alla Resistenza. Nel gennaio 1940 Himmler ispezionò il campo ed emanò l'ordine di utilizzare le punizioni corporali, con la frusta o altro strumento analogo, anche con le donne. Ufficialmente era necessaria un'autorizzazione speciale da Berlino, ma nella realtà era il Comandante del campo che decideva autonomamente di infliggere le punizioni.  Le internate che dovevano essere punite venivano condotte, dopo l'appello della mattina, in una cella sotterranea e lì percosse con un numero di colpi che variavano da 5 a 25. La detenuta doveva anche contare il numero dei colpi che quasi sempre arrivavano al limite massimo di 25, il che per una donna anziana, malata o indebolita dalla vita del lager significava morte certa.
Internate al lavoro


Negli anni seguenti il numero delle internate continuò ad aumentare per effetto delle persecuzioni condotte dalle autorità naziste nei paesi occupati dalla Wehrmacht. Fino al 1942, però, il campo non ebbe una camera a gas per cui coloro che venivano condannate a morte dovevano essere inviate ad altri campi, Auschwitz o Buchenwald per esempio, per essere giustiziate. Solo nel marzo del 1943 le SS costruirono un crematorio nel campo. Le ceneri delle vittime venivano disperse nel vicino lago di Schwedt.

Il 1° agosto del 1942 i dottori del campo iniziarono gli esperimenti medici su donne sane. In particolare, dietro esplicita richiesta del medico delle SS Ernst-Robert Grawitz, vennero inflitte ferite da armi da fuoco e infezioni provocate da bruciature per sperimentare l'efficacia delle Sulfonamidi nelle cure delle ferite di guerra. Alcune donne morirono e molte rimasero invalide a causa degli esperimenti, ma i medici del campo si ritennero soddisfatti perché l'uso del Sulfonamide, sul quale si riponevano grandi speranze come antibiotico, aveva abbassato il tasso di mortalità. Questi primi esperimenti vennero condotti su prigioniere di origine polacca. In seguito i test vennero estesi a tutte le donne internate, inoculando loro batteri, agenti patogeni, schegge di legno o di vetro nelle ferite aperte al fine di simulare gli effetti delle bombe a frammentazione, per poterne poi osservare il decorso e l'efficacia dei medicamenti utilizzati, al fine di registrarne gli effetti.

Il medico incaricato di selezionare le detenute e di verificare il corretto svolgimento degli esperimenti era anch'essa una donna, Herta Oberheuser, la quale sceglieva principalmente giovani ragazze polacche che erano state imprigionate per motivi politici. Spesso venivano somministrate intenzionalmente cure mediche carenti in modo da favorire un deterioramento mirato del processo di guarigione e raggiungere così il massimo livello possibile di infezione. Dopo il trattamento molte donne venivano uccise attraverso iniezioni, cosa che in seguito, nei processi che ebbero luogo nel dopoguerra, fu tentato di far passare come un atto umanitario. La Oberheuser utilizzava specificamente iniezioni di benzina, il cui effetto aveva inizio dopo soli tre-cinque minuti. Le dichiarazioni rese dalla Oberheuser nel corso del processo di Norimberga, nel quale la dottoressa venne giudicata assieme ad altri medici nazisti, mostrano chiaramente come percepisse i suoi pazienti alla stregua di cavie da laboratorio e non di esseri umani.
Herta Oberheuser


Herta Oberheuser detiene il poco invidiabile primato di essere l'unica donna-medico ad essere finita sotto processo  a Norimberga. Il suo tentativo di difesa fu goffo e poco credibile; l'argomentazione da lei utilizzata per giustificare il suo operato, fornire alle vittime una possibilità di sfuggire a una morte che, altrimenti, sarebbe stata certa non era attendibile perché, nella realtà, le donne sottoposte agli esperimenti non avevano alcuna reale speranza di scampare alla morte, visto che i trattamenti medici avevano lo scopo di portare alle estreme conseguenze il loro deterioramento fisico.


Himmler ordinò di verificare la possibilità di eseguire una sterilizzazione di massa, al fine di impedire la nascita di vite non desiderate da parte delle gerarchie nazionalsocialiste. L'obiettivo finale era quello di determinare quali uomini, e quali donne, potessero avere dei figli e quali no, così la Oberheuser fu impegnata anche sul fronte degli aborti forzati. La regola era di lasciar partorire le donne che si trovavano in uno stato avanzato di gravidanza, per poi uccidere immediatamente i neonati. Secondo quanto è emerso al processo, gli aborti forzati a volte venivano praticati anche su donne che si trovavano al settimo o ottavo mese di gravidanza e a volte l'aborto non avveniva solo per via chirurgica, ma attraverso violenze e percosse fisiche.

Vennero condotti anche esperimenti chirurgici che consistevano nel trapianto di ossa nell'ambito della chirurgia ricostruttiva degli arti. Il medico che conduceva gli interventi, Ludwig Stumpfegger, intendeva sviluppare un metodo per vendere gli organi espiantati a pazienti privati come  pezzi di ricambio e per curare, dopo la vittoria finale del Terzo Reich, i molti soldati tedeschi che sarebbero diventati storpi a causa della guerra.

Herta Oberheuser venne processata a Norimberga e condannata a vent'anni di detenzione. Non fu condannata a morte perché non apparteneva alle SS, visto che alle donne ne era precluso l'ingresso. Nel 1951 la sentenza venne ridotta a dieci anni e il 4 aprile 1952 venne definitivamente rilasciata. In totale quindi scontò solo cinque anni. In seguito il Ministero Federale del Lavoro le concesse il riconoscimento di "Spätheimkehrer", cioè "rimpatriata in ritardo" e le accordò un sussidio speciale.

Pupazzo preparato da una madre austriaca
per il proprio figlio, internato con lei

Uno degli aspetti più ripugnanti della detenzione femminile a Ravensbrück era l'attività di prostituzione che aveva luogo nei bordelli istituiti nel campo a partire dal 1942. Non solo le prostitute ma anche le donne rinchiuse per motivi politici dovevano essere indotte a prestare servizio nei bordelli. Per convincerle venivano esercitate pressioni di ogni genere, dalle minacce ai ricatti alle false promesse di liberazione o di miglioramento delle condizioni di prigionia. In realtà Himmler, in una lettera scritta a Oswald Pohl, aveva già messo in chiaro che per nessun motivo alle donne che si prostituivano nei bordelli doveva essere concessa la libertà anticipata perché con la loro moralità "degenerata" avrebbero potuto infettare il corpo sano della società.

Coloro che accettavano di prostituirsi, nella vana speranza di riuscire a scampare alle durissime condizioni di vita del lager, dopo pochi mesi erano fatalmente esauste e venivano rispedite indietro con un timbro apposto a fianco del loro nome nei registri e l'annotazione "abgenützt" che in tedesco significa "logoro, consumato". Una volte rientrate nel lager assieme alle altre internate venivano uccise perché la loro presenza comportava dei rischi dal punto di vista sanitario.

Il primo bordello venne creato nell'estate del 1942 a Mathausen, seguito da altri bordelli nei lager di Gusen (Dicembre 1942), Auschwitz (30 Giugno 1943), Buchenwald (15 Luglio 1943), Dachau (Maggio 1944) e altri. Il campo di Ravensbrück doveva fornire le prostitute a tutti i lager del sistema di detenzione. La visita al bordello faceva parte del sistema premiale introdotto per i detenuti maschi accanto ai premi in denaro, alla distribuzione di tabacco e di generi alimentari.

Le guardiane del lager al processo.
Con il numero 9 Irma Grese "La belva bionda"
Ogni donna che si rendeva disponibile a prostituirsi doveva passare attraverso un sistema di iniziazione che consisteva nel mettersi a disposizione di tutte le autorità presenti nel lager, dal Comandante del campo fino ai medici, i quali dovevano valutare se la malcapitata fosse pronta per entrare nel bordello. Le più belle venivano destinate alle SS, quelle meno belle ai soldati e le donne di terza classe, almeno dal punto di vista estetico, agli internati maschi dei campi.

Una volta classificate in base alla propria bellezza le ragazze venivano smistate nei diversi campi di concentramento. Mauthausen aveva la precedenza su tutti gli altri lager. Secondo la descrizione che alcuni dottori hanno fatto dell'intero procedimento di selezione le ragazze oltre a essere carine, dovevano avere dei buoni denti e non dovevano soffrire di malattie sessualmente trasmissibili o infezioni della pelle. Quando una di loro rimaneva incinta veniva subito fatta abortire e sterilizzata.


Rullo di pietra che le internate
erano costrette a muovere
per i lavori di manutenzione stradale
Un capitolo a parte meritano i guardiani del campo, in particolare le donne le quali, a giudicare dalle testimonianze che ci sono giunte, esercitavano sulle detenute una sorta di fascino misterioso e sorprendente, come se appartenessero a un nuovo tipo ideale della donna tedesca. Spesso, oltre a essere molto belle, erano anche particolarmente brutali. Durante l'appello della mattina, quando le detenute erano costrette a rimanere in piedi al freddo seminude per delle ore, le guardiane giravano attorno a loro tenendo al guinzaglio dei grossi cani tedeschi. Quando una detenuta, stremata dal freddo e dalla fatica, crollava a terra le sorveglianti gli aizzavano contro i grossi cani addestrati a sbranare esseri umani.

Una di esse, di nome Irma Grese, si distinse in modo particolare per la sua crudeltà: costringeva le internate a raccogliere l'ortica che cresceva attorno al campo senza fare uso di guanti. Le detenute dovevano riempire dei grossi cesti con le foglie di ortica, ma il potere urticante della pianta faceva sì che le mani si riempissero di piaghe fino a sanguinare. Inoltre la Grese verificava sempre inflessibilmente che i cesti fossero pieni fino all'orlo entrandovi dentro con gli stivali indosso.
In seguito la Grese fu inviata a prestare servizio al campo di Auschwitz dove si guadagnò diversi soprannomi, tra cui "Belva Bionda" e "Iena di Auschwitz". Dopo la guerra fu giudicata e condannata a morte per i crimini commessi durante il servizio nei campi di concentramento. Fu giustiziata a soli 22 anni.

Tutti gli internati, uomini e donne, erano costretti a lavorare presso gli impianti della Siemens, che si trovavano proprio a ridosso del campo. In teoria il lavoro avrebbe dovuto essere retribuito, ma nella realtà l'azienda versava lo stipendio alle SS le quali, avendo procurato la manodopera, trattenevano l'intera somma. L'orario giornaliero era di oltre 10 ore e i detenuti dovevano recarsi a piedi al lavoro senza essere adeguatamente vestiti e nutriti. Quando qualcuno crollava per il freddo, la stanchezza o la denutrizione veniva brutalmente eliminato.

Resti del lager della Siemens

Alla fine di aprile del 1945, visto che il fronte si stava avvicinando, le SS decisero di sgomberare il campo e costrinsero gli occupanti a intraprendere una cosiddetta "Marcia della morte". Anche i malati furono costretti a incamminarsi attraverso i boschi con i loro aguzzini e coloro che erano troppo deboli per muoversi vennero uccisi sul posto. Il 30 aprile le truppe sovietiche raggiunsero Fürstenberg e riuscirono a recuperare coloro che erano sopravvissuti alla "Marcia della morte". Molti di questi, però, morirono nelle settimane successive a causa delle durissime condizioni alle quali erano stati sottoposti.

Nel 1959 è stato inaugurato un memoriale a ricordo dei crimini perpetrati nel campo di Ravensbrück. Dopo la riunificazione, nel 1993, il memoriale è entrato a far parte di una fondazione indipendente di diritto pubblico finanziata congiuntamente dallo Stato del Brandeburgo e dalla Repubblica Federale Tedesca.

Sopravvissute al lager
 durante una commemorazione

Eva Guttman Oswalt, un'ebrea tedesca che è stata internata nel campo e che dopo la guerra ha scelto di emigrare negli Stati Uniti, ha raccolto in un libro  le ricette di cucina di alcune internate del lager di Ravensbrück provenienti da 15 paesi diversi, che durante la prigionia lei aveva annotato su alcuni foglietti di carta. In totale si tratta di oltre 100 ricette che le donne avevano rievocato come piatti preferiti della loro patria durante i periodi di maggiore privazione e sofferenza. Il libro si intitola "Ich sterbe vor Hunger!“ Kochrezepte aus dem Konzentrationslager Ravensbrück" (Io muoio di fame! Ricette di cucina dal campo di concentramento di Ravensbrück). La vicenda di Eva Guttman Oswalt è stata raccontata in un documentario di 45 minuti intitolato "Lust am Leben – Mit 103 in Amerika", realizzato da Michael Marton.

Un'altra testimonianza realizzata di recente è "Die Frauen von Ravensbrück", un documentario del 2005 in lingua tedesca della regista Loretta Walz che contiene oltre 200 interviste a donne sopravvissute al lager.


Link utili:



lunedì 14 gennaio 2019

Indagine non autorizzata - Carlo Lucarelli


Cosa succede quando si vuole cercare a tutti i costi una verità che a nessuno interessa conoscere? Quando tutto consiglia di non guardare troppo da vicino certi dettagli, di voltarsi dall'altra parte per accettare il gioco delle parti, ma inspiegabilmente qualcosa spinge ad andare oltre l'apparenza delle cose, a non accontentarsi delle verità ufficiali e del quieto vivere, seguendo un impulso che non si è in grado né di controllare né di capire?

Questo è ciò che capita all'ispettore Marino, in servizio presso la Questura di Rimini, il quale in un giorno d'estate del 1936 si imbatte e risolve nel giro di poche ore un caso di omicidio avvenuto sulla spiaggia di Riccione, a poca distanza da Villa Mussolini, dove il Duce sta trascorrendo le sue vacanze. La vittima è una prostituta locale, una certa Miranda Rubino.

Il caso viene risolto brillantemente con l'arresto del compagno della vittima, il quale prima oppone resistenza ai poliziotti, ma in seguito, una volta condotto in Questura, confessa il delitto. Indagine conclusa in un battibaleno, quindi, tanto che in Questura giunge persino un telegramma di congratulazioni da parte di Mussolini in persona. Eppure qualcosa, all'ispettore Marino, rode dentro. Qualcosa non lo convince. 

Forse non gli piace il clima di facile conformismo che regna tra i colleghi: personaggi privi di qualsiasi motivazione ideale che, pur non riuscendo più a credere alle verità ufficiali del regime, non osano schierarsi apertamente contro di esso per timore di perdere i vantaggi faticosamente acquisiti in anni di carriera.  

Forse l'ispettore è rimasto segnato dalla recente separazione dalla moglie, giovane, bella e irrequieta, che l'ha abbandonato perché non sopportava più il grigiore della sua esistenza da poliziotto di provincia. Oppure, forse, a spingerlo a cercare la verità è la consapevolezza strisciante che il regime politico sotto il quale da anni vivono gli italiani non è più in grado di conciliare la retorica ufficiale con la realtà dei fatti e ha imboccato la strada che lo condurrà alla propria catastrofica dissoluzione. 


Fatto sta che l'ispettore inizia un'indagine solitaria, faticosa e anche rischiosa, con lo scopo di appurare chi abbia ucciso veramente Miranda Rubino. E tutto ciò non per una particolare simpatia o compassione verso la vittima o verso il suo compagno, per il quale anzi sembra nutrire un certo disprezzo, ma solo per una sorta di sorda ribellione interiore verso un ambiente e un regime al quale egli si dimostra sempre più insofferente. A volte il suo innato senso dell'ordine, oltre al timore delle delazioni, lo spinge a rientrare nei ranghi, anche a causa del fascino che esercitano sulla sua indole piccolo borghese i personaggi altolocati che gravitano attorno alla figura del Duce e con i quali egli fatalmente entra in contatto, ma avrà la determinazione di persistere nei suoi intenti fino alla scoperta della verità. 

E' una verità, però, che lascia l'amaro in bocca perché lui stesso si rende conto che su di essa nessuno potrà mai costruire nulla di utile. Il paese è ormai avviato lungo la china distruttiva che lo condurrà all'infamia delle leggi razziali e all'ingresso in guerra a fianco della Germania nazista. I protagonisti del romanzo, come spesso accade in Italia, vivono le loro vicende umane senza interrogarsi sul destino collettivo che li attende e senza porsi il problema della moralità delle azioni che compiono, spinti dalla loro vitalità solo a cercare di trarre ogni vantaggio possibile dalle persone che frequentano e dalle circostanze che li vedono coinvolti.

L'ispettore Marino, nonostante i suoi limiti, pare essere uno dei pochi personaggi del libro che tenta strenuamente di sollevarsi al di sopra della mediocrità che lo circonda. Sotto questo punto di vista bisogna riconoscere che il personaggio ideato da Lucarelli è delineato con qualità straordinaria, così come straordinariamente evocative sono le atmosfere nelle quali si svolge la vicenda, contraddistinte dal torpore sonnacchioso e un po' ovattato di un'estate riminese d'altri tempi, quando la vacanza al mare era un privilegio riservato a pochi. Il tutto viene reso, con grande abilità narrativa, in un clima da quiete che precede la tempesta, nel quale la dimensione provinciale dei personaggi è sovrastata dall'incombere minaccioso di eventi che segneranno non solo la storia nazionale, ma anche quella europea e mondiale.