martedì 12 febbraio 2019

Considerazioni sul Giorno del Ricordo

La giornata dedicata al ricordo delle Foibe ispira una serie di riflessioni, a partire dalla scelta della data, il 10 febbraio, che abbastanza curiosamente coincide con il giorno della firma del Trattato di Pace tra lo Stato italiano e le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (10 febbraio 1947). Dico curiosamente perchè gli eccidi delle foibe si sono consumati nell'ottobre del 1943 e nel maggio del 1945, per cui ci si aspetterebbe che vengano commemorati in autunno oppure a maggio. Invece la data scelta sembra avere connotazioni vistosamente polemiche verso il Trattato di Pace, forse perché esso sanciva la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione, la A e la B, delle quali solo la prima, che racchiudeva l'entroterra triestino, fu restituita all'Italia mentre la seconda, che di fatto includeva tutta la regione istriana, rimase definitivamente alla Jugoslavia. D'altra parte il regime fascista aveva concorso  a scatenare il conflitto bellico più distruttivo della storia umana ed era prevedibile che le potenze vincitrici avrebbero fatto pagare agli italiani il prezzo della sconfitta. Va anche detto che l'Italia, almeno parzialmente, venne ricompensata con l'annessione della Val Pusteria, che fu invece tolta all'Austria nonostante, all'epoca, fosse interamente abitata da austriaci. 

Dopo la fine del conflitto bellico alla popolazione italiana residente in Istria fu concessa, almeno in teoria, la possibilità di scegliere se restare o andarsene, ma in realtà la scelta fu quasi obbligata perché era chiaro che i vertici jugoslavi intendevano restituire agli italiani il trattamento che il regime fascista aveva riservato a sloveni e croati durante il ventennio precedente. I pochi coraggiosi che decisero di restare dovettero rassegnarsi a ricoprire un ruolo marginale all'interno di una società nella quale il sentimento popolare anti-italiano, oltre a nutrirsi del ricordo dei crimini commessi dal regime fascista durante la guerra,  veniva alimentato ad arte dai dirigenti locali e nazionali del regime comunista.



Sergio Segio
Sergio Segio, l'ex comandante Sirio della formazione terroristica Prima Linea, era originario per l'appunto di Pola, anche se è difficile sapere se la sua famiglia fu tra quelle che decisero di restare oppure tra quelle che giunsero dall'Italia. Infatti non ci fu solo chi scelse per costrizione, ma anche chi decise deliberatamente di andare a vivere in Jugoslavia per contribuire all'edificazione del socialismo in versione adriatica. E' il caso dei 2.000 operai dei cantieri di Monfalcone che nel 1947 scelsero di varcare il confine per lavorare e vivere a Fiume. La Jugoslavia aveva disperato bisogno di manodopera qualificata per costruire le infrastrutture che la mettessero in grado di diventare l'anello di collegamento tra Medio Oriente ed Europa centro-orientale: oleodotti, metanodotti, depositi di stoccaggio delle merci, cantieri navali, ferrovie, strade e autostrade. Alcuni operai di Monfalcone, attratti dal miraggio del Paradiso in terra e incoraggiati dalla propaganda del Partito Comunista Italiano, pensarono che quella fosse la grande occasione per tentare di costruire un mondo nuovo e un'umanità diversa. Difficile dire in quanti si siano pentiti della scelta fatta e quanti invece ne siano rimasti soddisfatti.


Il porto di Trieste
Dal punto di vista strategico il controllo del porto di Trieste era indispensabile per il regime di Tito. L'obiettivo era duplice: controllarne i traffici e, possibilmente, frenarne lo sviluppo per favorire la crescita del porto di Fiume, fino a renderlo il primo porto dell'Adriatico. Nel 1945 il tentativo  di realizzazione del progetto avvenne per via militare, e gli orrori delle Foibe ne sono la testimonianza più evidente; nella seconda metà degli anni Settanta invece l'operazione fu tentata sfruttando alcune delle clausole presenti negli accordi di Osimo del 1975. In entrambi i casi il tentativo fallì, per la semplice ragione che il porto di Trieste aveva, e continua ad avere, un'importanza troppo grande per l'economia del mondo tedesco meridionale perché le grandi potenze potessero permettere a un regime comunista, in una forma o in un'altra, di controllarne le attività.


Ulteriore motivo di riflessione è rappresentato dall'affermazione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale commentando l'eccidio delle Foibe ha affermato che "non si trattò, come qualche storico negazionista o riduzionista ha provato a insinuare, di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni". In effetti tra le vittime degli infoibamenti figurarono anche antifascisti, esponenti locali del CLN e persino i finanzieri del porto di Trieste, i quali non avevano commesso alcun crimine ma agli occhi dei soldati jugoslavi erano comunque colpevoli di vestire una divisa dello Stato italiano. Va detto, però, che i dirigenti comunisti ebbero gioco facile nell'attizzare l'odio anti-italiano, visto che il regime fascista aveva coltivato una discriminazione nei confronti della popolazione slava che da principio aveva solo caratteristiche culturali, ma che lentamente era scivolata, complice anche l'alleanza con la Germania Nazista, nelle voragini dell'intolleranza razziale. Fin troppo facile da parte di Tito e degli altri dirigenti comunisti propagandare l'equazione italiano=fascista e cavalcare i sentimenti di odio verso gli italiani per perseguire obiettivi di natura strategica.


La firma del trattato di Osimo
L'invasione della Jugoslavia da parte delle potenze dell'Asse, nel 1941, aveva provocato la nascita di un forte movimento resistenziale per stroncare il quale era stato impiegato ogni mezzo: fucilazioni, rastrellamenti, rappresaglie, incendi di villaggi, deportazioni della popolazione civile in campi di concentramento, alcuni dei quali gestiti interamente dalle forze armate italiane. E' evidente che, quando la IV Armata jugoslava si affacciò alle porte di Trieste, nel maggio 1945, gli animi fossero tutt'altro che sereni. Tanto più che era già emerso chiaramente l'orientamento, da parte delle potenze vincitrici, di non voler perseguire i criminali di guerra tedeschi e italiani a causa del nascente clima di contrapposizione con l'ormai ex alleato sovietico.

Tutte queste cose sono state dette e scritte più volte da molti storici, sia italiani che sloveni, e non si comprende come mai Sergio Mattarella, con il suo intervento, abbia voluto escludere dal novero delle interpretazioni ammissibili proprio quella che, a giudicare dallo svolgimento degli avvenimenti, appare la più probabile, e la più semplice, per spiegare i massacri delle Foibe. Il Presidente della Repubblica ha voluto utilizzare un'argomentazione che ricorda, nello stile e nel contenuto, i canoni tipici della retorica populista:  indicare in maniera generica un nemico per mobilitare il sentimento popolare verso di esso evitando però di scendere troppo nei dettagli. Molto furbo e molto efficace. Se la frase fosse uscita dalla bocca di Salvini nessuno ci avrebbe fatto caso, ma sentirla pronunciare dalla figura che ricopre il ruolo di garanzia delle istituzioni democratiche fa un certo, sinistro, effetto.